"La tragedia immensa ed a suo modo indicibile dell'Olocausto deve pur essere non solo raccontata, ma soprattutto ripetuta. Premiandola con l'oro, il festival dei "ragazzi" di Bellinzona non poteva in questo senso operare scelta migliore: quella che inizia con la solita, famigerata stella gialla apposta in quel 1942 ad Amsterdam sul paltoncino del piccolo protagonista, quella che seguono i suoi occhi nel campo "privilegiato" presso Bergen-Belsen, al quale venivano destinati gli ebrei provvisti di visti e "protezioni", e destinati ad essere scambiati con prigionieri di guerra tedeschi caduti nelle mani degli Alleati, è uno dei tanti destini che nelle scuole andrebbero ricordati quotidianamente.Se consideriamo che quello di Bellinzona è anche un festival di "cinema", se vogliamo evitare che la commozione e l'indignazione si stemperino in espressioni oleografiche (e quindi sempre più relegate in una Storia codificata, aneddotica e di conseguenza astratta) dobbiamo anche sottolineare quelle tendenze che, in perfetta ed encomiabile buona fede (com'è certamente il caso del regista Faenza, degli interpreti tutti) conducono a risultati come quelli di JONA CHE VISSE NELLA BALENA.
La sincerità con la quale il tragico aneddoto di Jona è raccontato da Faenza aiuta forse a superare il malessere ingenerato dalle incertezze espressive. Ma rimane il fatto che - più o meno inconsciamente anche per lo spettatore inavvertito - il fondo del film si sposta da quello che avrebbe dovuto essere il suo fine ad un puro sentimento di contrasto. Contrasto fra una messa in scena (la luce, i colori, la musica di Morricone, i movimenti degli attori all'interno dell'inquadratura, l'uso del commento off, soprattutto una dizione - forse perché in gran parte doppiata - da pubblicità di formaggini) ed un dramma che si fa sempre più tragico. Troppo tragico per essere rappresentato con quella tipica efficienza (privata delle luci e soprattutto delle ombre; dell'insostituibile potere del non-detto) del telefilm.
È soprattutto nell'assenza di quell'aspetto specifico del linguaggio cinematografico - l'uso dell'ellissi - che si delinea progressivamente il limite del cinema di Faenza. Un'assenza che ingigantisce, fino a renderle insormontabili, le difficoltà di mettere in immagini un racconto che risponde pur sempre alle regole del cinema di finzione.
Un itinerario che da fisico non può che farsi morale. Ed interiore, quindi: nel quale la prepotenza dapprima, la violenza, l'umiliazione, la violenza in seguito, conducono a delle forme di sofferenza che solo possono essere suggerite - quindi fatte intuire - ma non certamente mostrate e spiegate."